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«Se indossassi delle sneaker viola, gli altri mi farebbero a pezzi»

| Noëmi Pommes

Nonostante il tentativo di dargli un’educazione neutrale in termini di genere, sui social media e nel suo ambiente mio figlio di 12 anni si scontra con ideali di mascolinità tossica e mal interpretata: i ragazzi devono essere forti, duri e muscolosi e di certo non indossare colori da femmina. La soluzione? È un percorso faticoso, ma porta sulla buona strada.

«In realtà mi piacerebbero queste». In un negozio di articoli sportivi, mio figlio si gira tra le mani una sneaker. È bianca e all’altezza della suola ha una striscia argento-viola. Anche l’imbottitura è viola. «Ti piacerebbero?», chiedo, sebbene io conosca già la risposta. Mio figlio rimette la scarpa sullo scaffale. «Sì, sono fiche. Ma se indossassi delle sneaker viola a scuola, gli altri mi farebbero a pezzi».

Il viola e il fucsia sono i suoi colori preferiti. Quelli di suo padre sono il fucsia e il turchese. La proverbiale mela che non cade lontano dall’albero, presumibilmente. Mentre il papà oggi gira tranquillo con uno zaino fucsia, il nostro dodicenne osa mettersi i suoi colori preferiti solo quando siamo lontanissimi da casa, preferibilmente all’estero. Ovvero quando nessuno della sua classe lo può vedere.

Anche nei film, nei libri e nei social media il protagonista è per lo più un duro pieno di muscoli.

Dinamiche di concorrenza tra i ragazzi

Nella sua classe, come in tutte d’altronde, tra i ragazzi ci sono forti dinamiche di gruppo e di concorrenza. È importante essere i più fichi, i più forti, i più bravi a calcio ecc. Chi riesce a farsi valere in questi ambiti ha uno status elevato. Saper disegnare, essere disponibile o andare bene a scuola invece non contano praticamente nulla, e possono addirittura far precipitare il grado di popolarità. Mio figlio è troppo buono, empatico, riflessivo, forse anche troppo femminista nella sua educazione, per essere tra i primi nella classifica dei fichi. Nulla di grave in sé, ma è comprensibile che cerchi di fare di tutto per non arretrare ulteriormente nella graduatoria. Comprare scarpe da ginnastica non in base ai propri gusti per seguire i capetti della classe è un esempio ancora piuttosto innocuo.

Naturalmente, non tutti i ragazzi della sua classe sono così, e persino quelli che nel gruppo si presentano come i leader, in privato hanno un’altra faccia. Lo so perché conosco la madre del «super macho», che chiameremo «Ale», e so bene o male che tipo di valori gli insegna. Quando i due ragazzi sono da soli, lontani dallo sguardo degli amici, vanno molto d’accordo e l’eterna concorrenza scompare per magia. Magari in quei momenti persino portare pullover fucsia o scarpe lilla non sarebbe un problema per mio figlio.

Mio figlio può essere debole, avere paura e portare lo smalto

Sin da quando erano piccoli, come genitori abbiamo cercato di dare a entrambi i nostri figli un’educazione il più possibile neutrale in termini di genere e di affrontare la questione degli stereotipi nocivi esistenti a questo proposito. Abbiamo insegnato a nostro figlio che sentimenti come la paura o l’imbarazzo sono normali anche per i ragazzi, che la violenza non è la soluzione, che non bisogna sempre avere tutto sotto controllo o essere sempre e ovunque il più bravo e il più forte. Gli abbiamo spiegato che è una cosa buona accettare un aiuto e che bisogna sempre rispettare i limiti degli altri. Gli abbiamo comprato delle bambole e lasciato pitturare le unghie. E naturalmente aveva il diritto di piangere e riceveva lo stesso conforto che davamo a sua sorella. Sono sicura che i genitori di Ale trattano il loro figlio in modo molto simile al nostro.

Il duro come modello

Perché allora c’è sempre questo bisogno di competere, trattar male, essere forti? Certo, non bisogna farsi illusioni. Ci sono ancora famiglie che inculcano nei ragazzi l’idea che i veri uomini devono essere dei duri. Anche nei film, nei libri e nei social media il protagonista è per lo più un duro pieno di muscoli. Gli autoproclamati «uomini alfa» come Andrew Tate, che della loro misoginia fanno un business, raggiungono attraverso TikTok e simili non solo gli adolescenti, ma anche i bambini, che non hanno ancora praticamente testosterone in corpo (→ «Nel processo di crescita per diventare uomini, i nostri ragazzi sono lasciati a se stessi»). «Certo che lo conosco», dice mio figlio quando gli chiedo di Tate. I suoi contenuti misogini e aggressivi li trova pessimi, ma non può evitarli. E gli dà sui nervi non avere un addome scolpito da «uomo alfa» nonostante tutto lo sport che fa.

Il sessismo non è un problema nel nostro caso

Perlomeno, per quanto concerne la misoginia non vedo un problema in mio figlio. Al contrario: per lui è chiaro che anche le ragazze possono giocare a calcio, arrabbiarsi o fare le spaccone. Nel linguaggio di genere è addirittura più avanti di me, sebbene si tratti di un campo che fa parte della mia professione. E guai se i suoi insegnanti non usano un linguaggio inclusivo: subito alza diligente la mano e corregge, senza essere stato interpellato, quanto appena detto. «Guardi su TikTok o YouTube contenuti che trattano di parità tra uomo e donna?», gli chiedo. Lui mi guarda irritato e scuote la testa. «Mamma, sul mio account For-You ci sono quasi solo video di gamer, di sport o di scherzi divertenti», spiega. Raramente guarda video sessisti o misogini come quelli di Tate e dei suoi fan. «È chiaro che quei contenuti sono assolutamente scorretti!».

Linea ben chiara ma nessun indottrinamento

I media (social), i film, la letteratura, gli amici e tutto l’ambiente circostante influenzano il nostro modo di pensare e in particolare quello dei bambini e dei giovani, che si trovano in una fase molto intensa del processo di formazione della propria identità. È un compito dell’intera società provvedere alla parità in tutti gli ambiti della vita. In attesa che questo avvenga, è sicuramente utile discutere con i figli, in particolare con i ragazzi, di situazioni concrete e se necessario dare una linea ben chiara. Il sessismo e altre forme di discriminazione non sono opinioni che vanno difese. Nel nostro caso spesso è sufficiente mettere mio figlio di fronte a un determinato comportamento e fargli una domanda, tipo: «Come si sarà sentito Hassan, quando gli altri ragazzi gli hanno portato via il sacchetto di ginnastica?». Oppure: «Che cosa avrà pensato Leo, quando Ale ha detto a tutti sulla chat della classe che gli piace Maria e alcuni compagni hanno reagito con emoji di scherno e gif sessiste?». Con un dialogo aperto gli permettiamo di analizzare autonomamente le situazioni e i rapporti di potere senza «indottrinamento» da genitori. Le risposte che ricevo da mio figlio dimostrano infatti che è ben cosciente delle dinamiche sociali e che si vergogna di partecipare a questi giochi di potere.

Mettersi in mezzo, difendere un’altra opinione o solidarizzare richiede coraggio. E nessuno deve essere sempre coraggioso, nemmeno un ragazzo.

Nessuno deve essere sempre coraggioso

Osservo che nella maggior parte dei casi mio figlio è in grado di riconoscere quando può o vuole agire a favore della giustizia o in base ai propri desideri e valori e quando no. Discutiamo se desidera commentare il messaggio di Ale sulla cotta di Leo. «Potrei scrivere: "Ehi, che infamia, non si tradiscono i segreti!" oppure “E allora, essere innamorati è bello!”» propone. Ma poi decide di non farlo. Le dinamiche nella chat di classe sono troppo veloci e imprevedibili per lui, e il rischio di diventare lui stesso una vittima è troppo alto. Preferisce parlarne con l'insegnante di classe, in modo che lei possa portare l'argomento al consiglio di classe in modo generalizzato. Perché mettersi in mezzo, difendere un’altra opinione o solidarizzare richiede coraggio. E nessuno deve essere sempre coraggioso, nemmeno un ragazzo. Ritengo giusto scegliere, in caso di dubbio, il paio di sneaker che piacciono un po’ meno, ma in compenso (magari anche con l’aiuto del gruppo o degli adulti) schierarsi affinché Hassan e Leo non vengano fatti a pezzi.

Non c’è niente di male nel piangere

«Oggi in pausa Ale ha pianto perché qualcuno gli ha fatto un fallo a calcio e gli faceva male lo stinco», racconta mio figlio. Non ci giurerei, ma mi pare di sentire nella sua voce un’ombra di maligna soddisfazione. Il "grande guerriero" che piange per il dolore? «Eh, lo stinco è molto delicato», rispondo io con indifferenza. «Sarà», replica lui. «Ma piangere? E davanti a tutti?». Inspiro profondamente, indignata per l’indignazione di mio figlio. «In ogni caso poi sono andato da Ale e gli ho chiesto se era grave. Poi l’ho aiutato ad alzarsi e l’ho sostenuto per farlo uscire saltellando dal campo». Espiro. Evidentemente non ci siamo ancora. Ma siamo sulla buona strada.

Noëmi Pommes è giornalista e madre di due figli. Sia professionalmente che in ambito privato si impegna a favore dell'inclusione e della diversità. Non sopporta le disparità di trattamento e l'ottusità e compensa mangiando patatine fritte, cantando e campeggiando con il pulmino Volkswagen. Per proteggere i suoi figli, scrive sotto pseudonimo.